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Ragusa Sottosopra

n.6 del 09/12/2008

Jolanda Occhipinti
LA FORZA DELLA PASSIONE SOLIDALE

Jolanda Occhipinti

foto articoloIncontriamo questa donna ragusana, nota alla cronaca nazionale per la disavventura vissuta in Somalia nel maggio scorso assieme ad un altro cooperante (Giuliano Paganini) e ad un collaboratore somalo, per guardare più da vicino che volto ha la scelta di chi ha deciso di dedicare la propria esistenza a scopi unicamente umanitari, rischiando anche la vita. Jolanda è una donna semplice, nel privato timida, come lei stessa sottolinea, con uno sguardo aperto, vitale che esprime tutta la solidità e l'integrità scritta nella sua storia e nel suo lavoro.
Ci racconta di avere iniziato la sua attività di operatrice umanitaria nel 1995: sono diventata infermiera professionale qui a Ragusa, mi sono diplomata nel 1994/95 e subito dopo sono partita per il Ruanda per la mia prima missione, durante e subito dopo il genocidio come responsabile delle sale operatorie. Ho sempre desiderato fare queste esperienze. Sono partita per tre mesi tramite l'associazione Intersos di Roma. Il Ruanda ha rappresentato per me una grande scuola di vita da un punto di vista personale e professionale. Dopo questa esperienza è andata in Somalia e vi ha trascorso tre anni occupandosi della gestione dell'ospedale (120 posti letto). Nel ‘98 parte per lo Yemen per conto dell'organizzazione Ong Cins di Roma. Per un progetto di emergenza per alcuni distretti, nel gennaio dell'99, lavora per conto dell'ONU per i rifugiati somali in Yemen e lì rimane fino al marzo 2007, lavorando per differenti progetti (sia come consulente per l'Onu, sia come health coordinator). Nel marzo di quest'anno riceve l'onorificenza di “Cavaliere nell'Ordine della Stella della Solidarietà Italiana” per l'efficacia e spirito di sacrificio nell'ambito del settore sanitario e nel contesto della cooperazione internazionale…Per avere, con particolare riguardo alla repubblica dello Yemen, partecipato alla elaborazione ed alla conduzione di numerosi progetti…Per avere guadagnato a se stessa e all'Italia, nel corso delle molteplici attività svolte, l'alta stima e il prestigio derivanti dalla sensibilità umana con cui ha sempre operato foto articoloe dalla dedizione alla quale ha sempre informato il proprio lavoro. Dallo Yemen si sposta in Uganda (progetti con l'Unicef), poi in Sudan, sempre per conto della Cins, per seguire progetti del ministero degli esteri. Qui rimane tre mesi.
Poi è la volta del Kenia e poi della Somalia per coordinare alcuni progetti. Il sequestro, avvenuto il 21 maggio e conclusosi il 5 agosto scorso, non toglie forza alla sua azione ed ai suoi progetti umanitari. Ora coopera nuovamente con Intersos ed andrà in Ciad. Ho già presentato un progetto per lo sviluppo socio-sanitario specie delle fasce più deboli della popolazione, utilizzando anche il contributo di 10.000 euro che mi è stato consegnato dall’amministrazione Dipasquale durante la manifestazione “Ragusani nel Mondo”. Si meraviglia per tutta l'attenzione e l'affetto che ha ricevuto.
Forse non si rende conto che, suo malgrado, l'etica che la anima non rientra nell'ordinaria umanità.
Ci racconta l' esperienza del sequestro che ha catturato l'attenzione di tutti i ragusani e dell' intera nazione?
Le prime 24 ore sono state quelle più drammatiche e traumatiche. Intorno alle 5,30 del mattino, ognuno era nelle proprie camere, ci hanno preso e ci hanno portato via. Ma sapevano già chi prendere? No. Mirano solo a compiere atti destabilizzanti. Abbiamo cominciato a realizzare quali erano le nostre possibilità. Abbiamo cercato di attenerci ad elementari norme igieniche per non ammalarci. Io ho avuto la malaria, ma la malaria era inevitabile. Poi, non so il perché, ma le zanzare pungevano solo me. Ho stabilito un rapporto con i rapitori per cercare di tutelare la nostra sopravvivenza dando informazioni, ad esempio, sull'uso dell'acqua. Loro parlavano poco in inglese, le cose importanti riuscivo a fargliele capire.
Ho impiegato tutto il tempo a leggere tra le loro righe, cercare di non farmi sopraffare psicologicamente. La paura in questi casi deve essere gestita, perché mostrare debolezza può essere controproducente. Sono riuscita, grazie a Dio ed alle mie esperienze passate in Somalia e nelfoto articololo Yemen (dove mi occupavo di somali), pur essendo donna, a fronteggiarli abbastanza bene. Ho usato tutto quello che io conoscevo e sapevo per cercare di leggere i loro comportamenti. Ho controllato anche il mio comportamento, ho imparato a capire in questi paesi cosa è bene fare e non fare. Ad esempio? Coprirsi i capelli, non mettersi in mostra, non provocarli mai ed aspettare che siano loro a muoversi. Bisogna essere umili. Questo atteggiamento è fondamentale per chi fa un lavoro come il mio. Penso che questa sia una delle ragioni per cui grossi problemi non ne abbiamo avuti. Quindi ha attraversato le giornate concentrandosi sulle piccole cose quotidiane? Si, cercando di essere tranquilla, senza troppi scossoni. Eravate bendati? Eravamo bendati solo quando loro erano scoperti. E questo era buon segno. Il bendarci rappresentava per noi una garanzia, era questa la chiave di lettura.
Una giornata tipo me la racconta. Intanto, essendo loro musulmani, la prima preghiera veniva fatta all'alba. Alle 4,30 circa sentivamo il richiamo del muezzin e tutto il movimento annesso. Per loro è a quell’ora che comincia la giornata. Noi ci svegliavamo ed aspettavamo. Un giorno sì e l'altro no veniva l'acqua corrente. La situazione igienica per me è stata pesante, infatti mangiavo pochissimo. Ci lavavamo i vestiti quando c'era l'acqua corrente e poi si aspettava che portassero qualcosa da mangiare. La mattina portavano una specie di brodo di carne con del pane tipico etiope, banane. A me, che i primi tempi non mangiavo per niente, portavano dei pompelmi. La sera ci davano riso, negli ultimi tempi ci hanno portato anche della carne, ho cercato di spiegargli che erano due mesi che mangiavamo solo riso e questo non era sufficiente a coprire il fabbisogno energetico. Quando io ho avuto la malaria non riuscivo a mangiare e loro mi hanno portato del the dolcissimo, i farmaci me li hanno portati dopo perchè non li trovavano. Ha indicato lei i farmaci?
Sì, li ho scritti facendo lo spelling. Li hanno portati dopo due giornifoto articolo. La vita era in pericolo sempre, fino all'ultimo giorno. Ho prestato attenzione a tutto, sforzandomi di leggere quali erano i momenti più critici e quelli no, o quello che era “teatro” e quello che non lo era. Avevamo imparato a percepire il movimento del sole, contavo i giorni e le ore tranquillamente. Mai un pianto? Mai. I pensieri ricorrenti? I pensieri più penosi li allontanavo, perché altrimenti diventavo vulnerabile e questo poteva creare grandi problemi. Cercavo di non pensare alla mia famiglia, alle mie figlie, ai miei cari proprio per tutelare la mia sfera emotiva.
Era una questione di sopravvivenza non essere sopraffatti dall'emotività. Vi portavano qualcosa per impiegare il tempo? Non avevamo niente che ci permettesse di trascorrere il tempo. Non abbiamo né letto, né scritto. Una volta ho disegnato sui calcinacci delle pareti sparsi per terra un fondo marino. Dormivamo. Ho provato a chiedere anche delle sigarette, ma non le hanno mai portate. I rapitori vi davano informazioni? Si, ma per lo più fasulle. Bisognava capire cosa era attendibile e cosa no. Contavano sulle nostre reazioni. Ci chiedevano informazioni anche sulle nostre attività e possibilità, su alcune situazioni che potevano aiutarli ad avere più punti di riferimento. “Non so nulla” era la nostra risposta. Purtroppo la Somalia è un paese dove manca l'educazione da 20 anni. I ragazzi bisognava vederli, ad esempio, quando mi è venuta la malaria ed io cercavo di spiegare quali farmaci dovevano procurare, alla fine si sono seduti in 4-5, anche se lontani da me. Quindi tra i rapitori c'erano ragazzi? Sì, erano curiosi di capire cosa era la malaria e come si curava. Gli ho spiegato come si prendeva e perché. Loro erano affascinati, spesse volte portavano quadernetti e scrivevano, mi facevano ripetere in inglese e loro traducevano in somalo. In Somalia c'è una situazione davvero penosa. La gente che ha i fucili e compie queste azioni criminali non rappresenta tutta la gente somala. La stragrande maggioranza dei somali è gefoto articolonte intanto di grande intelligenza. Hanno grande rispetto e spirito di collaborazione con l'Italia.
Gli italiani per loro sono fratelli. Ognuno di loro conosce qualche parola italiana (un saluto, una città, un nome). Purtroppo quello che succede adesso è la conseguenza della mancanza di istruzione. I bambini crescono senza imparare nulla, l'unica scuola che c'è, se c'è, è quella coranica. I ragazzi non conoscono niente all'infuori dei fucili. Crescono così, sono cresciuti così. I somali, oggi come oggi, credo siano senza speranza, c'è una guerra civile dilagante e perenne. E se può esserci una soluzione può venire solo da loro, le forze internazionali dall'esterno non potranno venirne a capo. La Somalia è il paese più sconvolto eppure ha tante potenzialità: è un paese giovane, che è abituato allo scambio, non è un paese chiuso.
Cosa le ha lasciato questa esperienza? Mi ha dato grande forza. Io, ad esempio, sono timidissima, nel mio lavoro no, però nella mia vita privata sì. Esce fuori, si vede, arrossisco, non amo espormi. Ecco sotto questo punto di vista sono molto migliorata.
Come è stato il viaggio del ritorno? A Mogadiscio quando ci hanno preso sono stati gentilissimi, così il personale dell'ambasciata italiana a Nairobi. Sono stati fantastici. Il primo pomeriggio ci hanno fatto dimenticare da dove venivamo. Poi in Italia abbiamo vissuto veramente grandi emozioni. Abbiamo avuto un incontro con il ministro Letta, siamo stati a Milano per la consegna di un riconoscimento.
Senza parole poi il ritorno a Ragusa. Il sindaco, il presidente della provincia, il vescovo, le autorità mi hanno fatto sentire veramente a casa.
Sono rimasta davvero incantata e sorpresa dall'accoglienza che ho ricevuto. A tutt'oggi è così, è una cosa veramente splendida, mi ha aiutata veramente, non ho mai avuto un calo psicologico dovuto al rapimento. Non mi è stata vicino solo la mia famiglia, ma tanta gente. Sa, i primi giorni che uscivo ho incontrato tanti sorrisi.
Questo mi ha aiutata moltissimo. Non dimenticherò mai questo affetto inaspettato.


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