Ragusa Sottosopra
n.4 del 31/07/2009
Dalla masseria alla villa
Trasformazioni territoriali nell'altopiano ragusano durante il secolo XIX
L'opera si basa sulla preziosa lettura specificatamente architettonica di quattro ville ragusane ottocentesche restituendo così anche una visione contestuale dell'identità e del carattere di un territorio che persiste nella cultura e nella memoria collettiva.
Prof. Pellegrino quando e come nasce la stesura del suo libro?
Lo studio che presento scaturisce da un lavoro di ricerca condotto all'interno del Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica con sede presso l'Università degli Studi di Palermo; il serrato lavoro di revisione del Collegio - guidato dal compianto Prof. Pasquale Culotta - è stato prezioso per l’elaborazione dello studio e mi ha formato alla disciplina della ricerca. La stesura definitiva del libro, invece, l’ho condotta mentre ero assegnista di ricerca presso la Facoltà di Architettura di Catania con sede a Siracusa.
Lei ha condotto un’analisi molto rigorosa e precisa. Gli edifici oggetto della sua ricerca sono rilevati, osservati, raccontati. Quale filo conduttore ha seguito?
Come si precisa nell’abstract della quarta di copertina del libro, dei caratteri di eccezionalità del territorio ragusano il volume accentra l’attenzione - per ovvi motivi di interesse disciplinare dell’autore - sull’insediamento diffuso. Lo fa attraverso lo studio dei manufatti che meglio identificano questo fenomeno nell’altipiano ragusano: le case di campagna, nella fattispecie il tipo più riconoscibile e caratterizzato di esse, la masseria. Esse rappresentano, insieme ai muri a secco, l’aspetto più rimarchevole ed evidente di una strutturazione del territorio, la spia palese degli altri suoi caratteri di eccezionalità. La misura e la qualità di queste case di campagna varia nel tempo, ed evidentemente trovano un momento di più forte elaborazione durante l’Ottocento. Capire quando e come ciò sia successo può costituire un valido contributo a riconoscere la “pacifica eversione del latifondo” del ragusano così come è stata definita. In questa prospettiva si è cercato di operare due spostamenti rispetto alle ricerche precedentemente condotte sugli stessi argomenti: lo studio delle fonti e lo studio dei manufatti. Il territorio che si popola è stato indagato attraverso i documenti storici che lo testimoniano: gli archivi catastali, innanzitutto, che costituiscono a loro modo una radiografia del territorio e delle sue risorse (quello scritto del Catasto Borbonico del 1846 e quello disegnato del Nuovo Catasto Terreni del 1910); di grande utilità si è dimostrato l’archivio di disegni di un agrimensore ragusano dell’800, Giuseppe Puglisi, che opera negli anni a cavallo della redazione del catasto borbonico, tra il 1825 e il 1855 (senza di esso, forse, questo lavoro non avrebbe trovato la sua chiave di volta). Gli oggetti specifici della ricerca, le masserie dell’altipiano ragusano, sono stati sottoposti ad indagine diretta attraverso gli strumenti più squisiti della disciplina architettonica, che hanno portato a restituire in disegno quanto rilevato, indagato, appreso. Si tenta attraverso queste due operazioni un’inedita comparazione. Non esistono, infatti, studi condotti sui documenti catastali che indaghino le trasformazioni del territorio ragusano dal punto di vista dei suoli di case rurali 13; non esistono restituzioni in disegni di questi manufatti.
Lei delle case di campagna ragusane ha detto che sono modernissime, che insegnano il mestiere d’architetto, e quello che accade a Ragusa nell’800 rappresenta un modello. Cosa significa in chiave architettonica e culturale?
Io non sono uno storico dell’architettura, sono un architetto (distinzione paradossale, peraltro, solo fino a cento anni fa!). Lo studio, come dicevo prima, prende piede all’interno di un Dottorato di Ricerca in Progettazione Architettonica; ho sempre insegnato discipline progettuali nella Facoltà di Architettura di Siracusa; svolgo a tutti gli effetti la professione di architetto. Una casa lunga trecento metri e larga trenta - il Casino Sortino Trono dell’architetto Giambattista Pennavaria - con le sue enfilade, i suoi sfalsamenti e le sue inversioni prospettiche; una casa cubica - la Villa Ottaviano del geometra Interlandi - cui si giunge attraverso un percorso a spirale di arrivo, studiato e strutturato in tutti i suoi passaggi (la villa si percepisca sempre nella più consona proiezione angolare, tranne quando si giunge nella corte di ingresso dove la pendenza del terreno e i fabbricati laterali ne esaltano la proiezione prospettica centrale): sono lezioni attualissime per il nostro fare e trasmettere il mestiere di architetto. In una prospettiva culturale più ampia - come si precisa in chiusura del volume - le evoluzioni dei singoli elementi e delle relazioni delle parti delle case di campagna del ragusano additano una problematica costante dei manufatti rurali nelle varie epoche: da un manufatto di lavoro, dove la funzione produttiva era predominante, si passa ad un manufatto di piacere, dove l’abitazione è gerarchica.
Se vogliamo, dalla casa colonica si passa alla villa. In un secolo sembra consumarsi nel ragusano lo stesso passaggio epocale che aveva contraddistinto l’abitazione rurale ai tempi di Roma, che portò dalle tenute di Trebbio e di Cafaggiolo alle splendide ville medicee, che consentì al genio di Palladio di trasformare l’impianto della casa colonica veneta nella mirabile sintesi di natura e artificio delle sue Ville. Durante l’Ottocento nell’altipiano ragusano si assiste ad un processo analogo, la trasformazione del paesaggio è altrettanto radicale, i manufatti, ci pare di poter sostenere, comunque degni di nota. Semplicemente nessuno se ne occupa, almeno dal canto della nostra disciplina. Lo studio condotto ha voluto costituire, in questo senso, un primo approccio sistematico.
Ha più volte ribadito che senza l’agrimensore Giuseppe Puglisi non ci sarebbe questo libro. Perché?
Perché un approccio sistematico alla questione delle case di campagna dell’Ottocento ha comportato un rigoroso studio delle fonti. Non esiste, infatti, uno studio del repertorio iconografico e dei documenti d’archivio inerenti al contado relativi al periodo storico in questione. Ci siamo prefissi di condurlo a partire da quei materiali che più sono vicini al nostro campo d’indagine. I catasti, per prima cosa: quello borbonico del 1846 e quello post unitario degli inizi del ventesimo secolo. Essi permettono innanzitutto un raffronto di tipo quantitativo: quante sono le case di campagna a metà Ottocento, subito a ridosso della alienazione delle proprietà feudali, e quante sono settanta anni dopo, a trasformazione ottocentesca delle campagne avvenuta. Permettono di indagare, in sostanza, la veridicità e la consistenza di quella “pacifica eversione del latifondo” caratteristica del ragusano. I catasti permettono, altresì, di sapere dove sono e a chi sono appartenute le case di campagna, che può portare ad individuarle e riconoscerle. Ciò consente di spostare il discorso sulla “qualità” delle case, come erano fatte a fine Settecento, durante l’Ottocento, agli inizi del Novecento; consente di ricostruire alcuni caratteri permanenti per delinearne se possibile una tipologia e capire se essa subisce una evoluzione e quale durante l’Ottocento, che è il nodo principale di questa ricerca. I catasti del 1846 e del 1910 hanno, però, una discrasia che ne rappresenta il limite principale ma ne costituisce allo stesso tempo una ricchezza: il Catasto all’impianto del 1846 è un catasto esclusivamente descrittivo mentre il Catasto del 1910 è un catasto iconografico (che trova il suo completamento descrittivo – quantitativo solo nel 1940).
I due catasti non sono praticamente confrontabili a meno che non si riesca a trovare il trait - d’union che consente di ricondurre le ‘parole’ del 1846 alle ‘immagini’ del 1910 e viceversa; le parole del 1846 prenderanno forma supportando il discorso qualitativo; le immagini del 1910 saranno riconducibili ad una descrizione che alimenterà il paragone quantitativo. Nella mia ricerca questo anello di congiunzione è costituito dall’archivio di disegni dell’agrimensore Puglisi da Ragusa, approntato nella quasi totalità tra il 1832 e il 1853 circa, esattamente a cavallo della redazione del Catasto Terreni Borbonico del 1846.
La perizia dei disegni di Puglisi, e la relativa descrizione, ha permesso di individuare in alcuni casi le proprietà cui fanno riferimento nel Catasto Borbonico ed è riuscito come a dotare questo stesso delle immagini che gli mancavano; queste stesse immagini sono state confrontate con quelle del 1910, chiudendo il circolo. A margine di tutto quanto finora detto, va comunque sottolineato che queste mappe sono dei documenti di raro interesse indipendentemente dalle ragioni per cui sono state prese in considerazione.
Rappresentano una documentazione iconografica pressoché unica per l’epoca in cui sono redatte e meriterebbero di essere studiate per se stesse, come esempio di una cultura della rappresentazione e come documento del paesaggio agrario ottocentesco.
Puglisi si dimostra in queste rappresentazioni persona di alta cultura e dotato di strumenti e capacità disciplinari non comuni. Molte tavole, pur nell’accuratezza descrittiva di tutti gli elementi della costruzione del territorio, assurgono ad una sintesi rappresentativa che le fa ritenere degne di considerazione quali prove espressive in sé, indipendentemente da ciò che rappresentano o dal perché siano state redatte.
Infine, un fil rouge mi lega personalmente a questo agrimensore ragusano dell’Ottocento da quando ho rintracciato il carpettone dei suoi scritti all’Archivio Comunale di Ragusa (me che sono architetto pugliese ‘emigrato’ in Sicilia).
Mi è sempre piaciuto pensare - specie nei momenti difficili della ricerca, quando sembrava irrimediabilmente arenarsi - che il mio studio, i miei scritti, i miei disegni, costituissero l’anello successivo del lavoro iniziato da Puglisi quasi duecento anni fa e che ora può anche giacere e sonnecchiare molti altri anni e poi trovare un altro anello e questo è tutto ciò che resta, infine, delle immani fatiche (alla fine a Puglisi non era neanche richiesto di elaborare dei disegni, per lo più bastava redigere una stima descrittiva); perché - come scrive Le Corbusier - “nulla è trasmissibile se non il pensiero”.
Il suo è stato un lavoro molto lungo, frutto (come tutte le opere) anche di incontri, sostegni, collaborazioni. Chi e cosa ha piacere di ricordare?
E’ una lista lunga. In questa sede mi limiterò a ricordare i ragusani che mi hanno aiutato, che ho incontrato. Innanzitutto il prof. Giuseppe Barone per la lucidità e l'esaustività di trattazione dei suoi testi sul contado ragusano, alcuni dei quali ancora inediti cui mi ha permesso di accedere; il prof. Marco Rosario Nobile per i suoi indispensabili suggerimenti sugli archivi ragusani (senza di lui non avrei “incontrato” l’agrimensore Puglisi); il dott. Pepi, ex direttore della Biblioteca Civica di Ragusa; il sig. Tumino dell'Archivio Comunale di Ragusa; il dott. Morana dell'Archivio di Stato di Ragusa; il geom. Paolino dell'Agenzia per il territorio di Ragusa, il prof. Giorgio Flaccavento.
Vi sono, poi, i proprietari delle ville e delle case che ho studiato: la Curia Arcivescovile di Ragusa per la Villa Magnì; la famiglia Sortino per il Casino di campagna Sortino Trono; i dott.ri Ottaviano (Giorgio e Giovanni) per la Villa Ottaviano; il sig. Occhipinti per la casa in contrada Renda.
Infine, per ringraziare il ragusano che più mi ha aiutato in questo lavoro, voglio riportare un aneddoto che mi pare chiuda ellitticamente l’intero ragionamento sul territorio di Ragusa.
Il disegno di Puglisi del giardino in Contrada Renda a metà Ottocento ritrae fedelmente la particolarissima condizione insediativa del manufatto riportando, oltre al beveratoio, la scanalata, le grotte, la fonte e il passaggio del corso d’acqua attraverso la masseria stessa, come ancora oggi avviene.
Mentre cercavo di rintracciare la masseria di Renda chiesi informazioni ad un massaro che transitava sul trattore, ma, nonostante le mie spiegazioni e le cartografie catastali alle varie scale, non ebbi alcuna informazione, stavo rinunciando all’impresa, quando mi sovvenne di mostrare il disegno di Puglisi; il massaro la riconobbe di colpo indicandomi inequivocabilmente come raggiungerla! (che la dice lunga sulla forza e la chiarezza delle rappresentazioni di Puglisi, ma anche sulla persistenza e la forza di una cultura condivisa).
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