Ragusa Sottosopra
n.2 del 04/03/2011
A passeggio in una città anchilosata. In cammino verso una Mappa di Comunità
Giorgio Flaccavento, Storico
Normalmente ormai la via Roma è perennemente deserta; bisogna aspettare la pedonalizzazione dei giorni festivi; ma se mi avventuro anch'io nel passeggio, mi pare di essere un turista fra turisti. E comunque meglio così. Nei rispetti del deserto feriale, la differenza si nota. L'atmosfera è più vivace. Sulle sponde di un traffico, intenso fino a qualche istante prima, i pedoni cominciano a raggrupparsi in una piccola folla; ma per desuetudine o per l'eccezionalità, i negozi restano vuoti, come se la gente li evitasse apposta. Non avevano quindi tutti i torti i commercianti a temere l'isola pedonale del centro storico, e se ora hanno cambiato idea è proprio perchè confidano nel ritorno di una consuetudine. Si aggrappano “meschini” all'ultima speranza, sul ciglio, come sono, dell'abisso della disperazione. Hanno davanti agli occhi la moría di negozi delle vie traverse: la via Sant'Anna, il Corso Vittorio Veneto. Perfino il Corso Italia, fino a qualche lustro fà, pullulante di esercizi, è oggi un cimitero di funeree lapidi di “si vende” e “si affitta”. Anche il negoziante, sopravvissuto alla dirompente ondata dei centri commerciali, vuole credere che un'isola pedonale permanente favorirà il commercio. Ma per dirla con il signor Folantin, desolato “flaneur” nella Parigi del racconto “Alla deriva” di Huysmans, il meglio decisamente non esiste; per la gente che non ha un becco di un quattrino viene soltanto il peggio.
La crisi balza agli occhi, ma non è una crisi legata a una particolare congiuntura. No, purtroppo! È in crisi quel sistema di vita, quel tessuto sociale che animava il centro storico di Ragusa superiore, e che faceva della parrocchia di San Giovanni il centro non solo della vita religiosa e sociale, ma degli affari che si concludevano nella piazza delle Logge di San Giovanni. Questi tessuti economici e sociali oggi sono ridotti a brandelli, a stracci, a cenci.
Basterà un'isola pedonale a far recuperare spazi di vita alla città sciancata che arranca e si trascina a fatica, anche per disabitudine e amnesia?
C'è innanzitutto da rifondare una cultura del passeggio che ormai è scomparsa. Il ragusano ha imparato, non importa individuare per colpa di chi, a diffidare dei mezzi pubblici, dei luoghi pubblici: li considera entrambi estranei ed ostili. È diventato macchina-dipendente: un sedentario motorizzato. Letteralmente deve reimparare a camminare. Ogni iniziativa che riavvicini il cittadino alla città è benemerita e desiderata. Lo dimostra il grande successo di due passeggiate effettuate nel centro storico di Ragusa superiore il 14 novembre e il 12 dicembre scorsi. A promuoverle il Laboratorio di Urbanistica Partecipata Insieme in città”, di recente costituito da un gruppo spontaneo di cittadini.
L'iniziativa è nata nell'ambito dei “Venerdì Insieme, testimoni e percorsi di cittadinanza attiva”, organizzate da associazioni culturali e di volontariato. L'ha suggerita, nell'incontro sul Centro Storico del 9 aprile 2010, il Prof. Filippo Gravagno che nell'occasione presentò il Laboratorio di Urbanistica Partecipata. Siamo consapevoli che questo è solo un inizio. C'è da impiantare “ex novo” una cultura dell'abitare il centro storico, occorre un pensiero che si metta in marcia, che diventi movimento di progresso e di riscatto.
Occorre costruire una civiltà dell'appartenenza e della partecipazione, ovvero una virtù “politica” cioè di “cittadinanza attiva”. Essa non può essere surrogata da una “sagra della frittella”, da un mercato rionale, da un'offerta di spettacoli e merci, da un happening più o meno festoso e invitante, che ben vengano! Dobbiamo camminare di nuovo con le nostre gambe, in tutti i sensi, quelle gambe che insieme alla città abbiamo lasciato anchilosare.
Conoscere i propri luoghi di appartenenza, prendere parte attiva nella loro conservazione, tramandare saperi, essere aperti a idee, persone, sviluppi, cambiamenti compatibili con la natura e la cultura che li hanno generati sono fattori che possono aprire le porte al dissenso, gestibile attraverso la conversazione, la tolleranza e la trasmissione delle memorie. Quali che siano le forme di conoscenza di cui avremo bisogno nel prossimo millennio, la cittadinanza e l'imma-ginazione dovranno essere la priorità nella futura organizzazione. È quello che aveva in mente Duccio da Boninsegna dipingendo la Siena del Buongoverno; è quello che delineava Leon Battista Alberti nella sua “Descriptio Urbis Romae” o “Descrizione ideale della Città di Roma”.
In Inghilterra gli urbanisti più avvertiti hanno trovato che le mappe e i disegni antichi sono molto più vicini a tutto questo, che non le più moderne e sofisticate topografie, così presuntuose di oggettività ed esaustività che escludono proprio gli aspetti che rendono un luogo significativo per le persone che lo abitano e che lo conoscono bene; aspetti che invece erano i protagonisti delle antiche mappe di un luogo particolare e hanno dato a queste mappe il nome di “Parish Map”, che vuol dire “mappa di parrocchia” che in italiano è stato tradotto in “Mappa di Comunità”.
Creando una “Mappa di Comunità”, ci si può riunire dove si desidera, si possono mettere in evidenza le cose che si ritengono importanti e si può trovare il coraggio di parlare con passione sul perchè tutto questo ha un senso. Nulla di più falso pensare una “Mappa di Comunità” in chiave esclusiva di nostalgia, di cui un pizzico non guasta. Non si tratta di costruire una fotografia di ciò che c'era una volta.
Anzi, la mappa, proprio per mettere pienamente a frutto la sua potenzialità di strumento di trasformazione, dovrebbe essere concepita come una sorta di fotografia di quel che dovrebbe esserci, ma non c'è. Si tratta di operare un difficile passaggio da una semplice registrazione di valori percepiti a una proiezione di valori desiderati.
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