Ragusa Sottosopra - Anno XII - N° 3
Ragusani Illustri
Francesco Battaglia
Attraverso il libro di Giuseppe Licitra scopriamo un illustre concittadino ai più poco noto. Protagonista di importanti pagine di storia locale dell’ OttocentoA Pippo Licitra va il merito di averci consegnato la figura di Francesco Battaglia con le pagine del libro
Un ragusano illustre: Francesco Battaglia, recentemente pubblicato dalla Genius Loci editrice, con il contributo della
Banca Agricola Popolare. Licitra ha navigato, per scriverlo, attraverso un mare di carte e documenti che avrebbero spaventato chiunque non fosse stato mosso da una sorta di missione atavica, a lui trasmessa da quelle carte che chiedevano vita di memoria
per chi fu suo avo e, nel contempo, figura, non poco importante, per la storia di Ragusa.
Perché certamente la figura del Battaglia, notevole per la ricchezza dei suoi sentimenti e per la vastità della sua cultura, è
poco nota presso il Ragusano contemporaneo, anche quello non ignaro delle vicende della storia della sua città.
E dire che molte delle pagine della biografia, che di questa limpida figura di sacerdote e di cittadino delinea il nostro
Licitra, sono anche pagine di storia ragusana, alcune altre di storia della Sicilia e perfino nazionale.
Apprendiamo dal Licitra che Francesco Battaglia nasce a Ragusa il 31 gennaio del 1816, figlio di un fabbro ferraio, che lo voleva in bottega; ma si accorse ben presto dell’inettitudine del ragazzo per il lavoro di officina e della sua propensione agli studi che assecondò con grandi sacrifici della famiglia.
Licitra ci mostra come il nostro superasse le difficoltà di una carriera di studi intrapresi in ritardo e di una altrettanto
tardiva vocazione sacerdotale, attraverso un temperamento forte e determinato, in contrasto con la fragilità del suo fisico.
Poco si sa dei suoi primi anni si sacerdozio.
Nel 1860 lo vediamo al fianco di Luciano Nicastro nel pronunciamento di Ragusa per l’annessione al Regno d' Italia. Dal
1867 al 1871 fu pro-rettore della Chiesa Madre di San Giovanni, in pratica il Parroco. In questa veste egli condusse una forte
battaglia a favore delle prerogative della Parrocchia di San Giovanni, gravemente compromesse dalla residua supremazia dell’altra Chiesa Madre di San Giorgio. Le pretese di quest’ultima appaiono sorrette, nella documentazione del Licitra, dalla Curia
vescovile siracusana, a causa anche dell’ardita idea del Battaglia di ottenere la fondazione di una nuova diocesi a Ragusa.
Nell’aspra polemica di quegli anni con la Parrocchia di San Giorgio, alimentata, come vedremo, da ragioni politiche, il Battaglia non esitò a scrivere, nel 1868, personalmente al Papa Pio IX, a sostegno delle ragioni della Chiesa Madre di Ragusa Superiore. L’attaccamento del Battaglia al suo “bel San Giovanni” non termina col suo ufficio parrocchiale, ed infatti il Licitra dedica un intero capitolo al rapporto del Battaglia col Santo Patrono San Giovanni, in cui ci imbattiamo in
gustosi episodi inediti.
Nel 1881 lo troviamo Rettore del Convitto Nicolò Tommaseo.
In questa veste egli comunica l’inizio dell’anno scolastico presso il convitto stesso delle scuole elementari e ginnasiali, nelle quali insegnò personalmente lettere italiane e latine.
Fu presidente del Gabinetto letterario di Ragusa, fece parte di altre accademie letterarie e scientifiche nazionali e
internazionali e fu autore di una vastissima produzione letteraria e scientifica generalmente inedita e della quale il Licitra ha il merito di offrirci un’ampia silloge.
Ma venendo alle pagine per noi più significative, la prima è certamente quella del “Cittadino e Patriota”.
Il nostro sacerdote, per dimostrare “amicizia e simpatia” nei riguardi dell’amico Luciano Nicastro,
coraggioso capo dei liberali ragusani, dopo l’episodio dell’esposizione del tricolore sulla facciata di San Giovanni,
scrisse un simpatico sonetto patriottico che fece stampare a sue spese, dal titolo “La dimostrazione
del 16 maggio”, che il Licitra riporta per intero:
“E Mille e Mille con bandiere e suoni
Di musici strumenti vanno in calma
Acclamando i tre nomi, che la palma
Già riportar, ché savi sono e buoni.
Quando scagliansi ‘n mezzo i mascalzoni,
Ch’ognor mostraro trista e nera l’alma,
Urlando: Oh! Vergogna! Niuno calma
Loro orribile ridda di demoni.
I Mille e Mille, pur fremendo in core
Stanno tranquilli fra cotanto scorno.
Il paese l’applaude e l’ammira.
O cittadini che portate amor
Al patrio suolo nel solenne giorno,
Comportate dei rei l’insania e l’ira.”
Il sonetto getta luce su una pagina molto importante per la storia di Ragusa e dell’annessione della Sicilia al Regno d’Italia che con l’avventura garibaldina provocò nell’Isola tutta una serie di aspettative difficilmente controllabili, un vero e proprio
terremoto tanto più grande quanto ampia era stata la mitizzazione di Garibaldi come restauratore di una giustizia sociale tradita. E' a tutti noto come questo terremoto interessasse il territorio della Sicilia sud orientale a partire da Catania. È da qui infatti che prese fuoco la miccia delle rivolte scoppiate a seguito del decreto di Garibaldi del 2 giugno sull’equa distribuzione delle terre demaniali e dell’editto di scioglimento delle bande armate dei “picciotti”, dei quali i più facinorosi si ribellarono organizzandosi in bande, cui si unirono spesso i contadini delusi del modo in cui fu applicato il decreto.
La sommossa si propagò presto da Catania, a Biancavilla, a Militello. L’incubo del terrore, suscitato dagli eventi sanguinosi del catanese arrivò fino a Ragusa che nell’estate del 1860 si trovò più volte sull’orlo della guerra civile. La miccia che l’avrebbe potuto fare scoppiare era il secolare contrasto fra Ragusa inferiore e Ragusa superiore, che all’origine fu apparentemente
religioso. Il contrasto, dopo il 1820 divenne dichiaratamente politico per la diseguale rappresentanza dei due quartieri nell’amministrazione del Comune.
La plebiscitaria adesione dei “Sangiuvannari” di Ragusa superiore alla causa liberale è da attribuire all’aspirazione di questi all’indipendenza dal predominio Sangiorgiaro. Il timore che la rivalsa del quartiere superiore venisse strumentalizzata dai facinorosi, facendo precipitare la situazione, era quindi tutt’altro che infondato. È questa la ragione della conclusione
pacificatrice del sonetto che invita "i Mille e Mille” dimostranti a respingere con calma e
tranquillità le provocazioni dei “mascalzoni”, sotto le vesti dei fanatici Sangiorgiari.
Il sonetto enfatizza la presenza dei dimostranti sul piano di San Giovanni, che, comunque, furono secondo diverse testimonianze “un buon numero” oppure “molto numerosi”.
Ciò vuole significare un plebiscitario consenso all’azione di Luciano Nicastro nel momento in cui, con studiato e provvidenziale tempismo, la sera del 16 maggio fece issare, sulla facciata di San Giovanni, al ventenne bottegaio Emanuele Rizza, il
tricolore.
Nel sonetto si acclamano tre nomi che “savi sono e buoni”, come garanti del nuovo ordine. Chi sono i
tre personaggi? Pensiamo, oltre allo stesso Nicastro, a Corrado Arezzo e ad Emanuele Schininà. In questa ipotesi ci conforta
l’opinione dello storico Giuseppe Miccichè, che, accennando ai contrasti sorti in vista delle candidature al Parlamento del Regno
d’Italia, riferisce come “nei vari comuni cominciavano a dividersi in aggregazioni più o meno vaste, di tipo familiare e clientelare, che prendevano nome dalle personalità di maggiore prestigio: Cancellieristi e Iaconisti a Vittoria;
Donnafugatiani, Schininiani e Nicastriani a Ragusa; Giardiniani e Carlopapisti a Modica; Morsiani e Carusiani a Comiso”.
In effetti, Corrado Arezzo Donnafugata fu eletto, nello stesso 1860, vice presidente del Comitato Rivoluzionario con il
forte appoggio del Nicastro; mentre Emanuele Schininà era stato presidente del Comitato Provvisorio. Del Nicastro sappiamo da
diverse testimonianze con quanta forza si adoperasse perché i dimostranti non rispondessero alle provocazioni e come non volle
nessuna carica ufficiale, se non quella necessaria nel momento dell’anarchia della transizione di Delegato all’ordine pubblico.
“I savi e buoni” del sonetto sono quindi gli stessi “buoni” cui il
Nicastro dice fu gioco forza di unirsi per prevenire maggiori mali, vegliando al mantenimento dell’ordine pubblico, messo a
repentaglio ad ogni istante.
Secondo il racconto dello stesso Nicastro, infatti, le aggressioni e le minacce, in quei giorni della rivoluzione, si susseguono nei confronti di presunti Sangiorgiari, di un certo Ferdinando Rimmaudo in rischio di essere buttato dal Ponte dei Cappuccini, dello stesso Corrado Arezzo di Donnafugata o di galantuomini, viceversa notoriamente “Sangiuvannari”.
Gli episodi giustificano ampiamente il programma politico a favore dell’ordine di Luciano Nicastro, del quale rappresenta la
sintesi poetica il sonetto del Battaglia.
Autore: Giorgio Flaccavento
Nel prossimo numero sarà pubblicata la seconda parte dell'articolo
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